sabato 13 maggio 2017

Catania, Valentina è morta di obiezione di coscienza o malasanità?

Alla fine di marzo sono stati depositati gli esami autoptici effettuati sul corpo di Valentina Milluzzo, morta il 16 ottobre del 2016 nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Li hanno resi pubblici, alcuni giorni fa, i suoi genitori durante la trasmissione Storie Vere (Rai 1). Valentina è morta per “mancato tempestivo riconoscimento della sepsi; mancata instaurazione tempestiva di antibioticoterapia efficace; mancata raccolta di campioni per gli esami microbiologici; mancata tempestiva rimozione della fonte d’infezione (feti e placenta); mancata somministrazione di unità di emazie lavate durante l’intervento del 16 ottobre 2016”. I familiari hanno testimoniato che, nel suo ultimo giorno di vita, Valentina peggiorava di ora in ora tra atroci sofferenze ma che secondo il medico non sarebbe stato possibile intervenire finché si fosse sentito il battito cardiaco dei feti. L’ospedale ha sempre negato questa circostanza ma i genitori, la sorella e il marito di Valentina hanno sempre confermato la loro versione dei fatti. Quando ne scrissi ad ottobre mi venne alla mente la morte di Salavita Halappanavaruna giovane donna incinta che nel 2012 morì di setticemia alla clinica Galway University di Dublino, dopo tre giorni di agonia, senza che i medici inducessero l’aborto in ossequio alla legge irlandese che vieta qualunque intervento fino a che si avverte il battito cardiaco del feto. In Italia vige un’altra legge: l’obiezione di coscienza è prevista nella legge 194 solo in caso di interruzione volontaria di gravidanza (non era il caso di Valentina) e comunque deve essere garantita alle donne l’assistenza medica. Possono obiettare i ginecologi ma non intere strutture.
Lisa Canitano, ginecologa e presidente di Vita di donna, riceve ogni giorno mail da parte di donne che denunciano la violazione dei loro diritti, in un’intervista rilasciata nei giorni seguenti la morte di Valentina, ha ricordato la vicenda di una donna incinta ricoverata a Roma in un ospedale cattolico in seguito alla rottura del sacco amniotico che dovette andare in Grecia, pagando 4mila euro, perché i medici, tutti obiettori, non intervenivano. Un episodio inquietante visto che siamo in Italia non in Irlanda o in Polonia e fatti come questi non dovrebbero verificarsi nemmeno negli ospedali di ispirazione religiosa: i diritti delle donne, la loro salute e la loro vita vanno salvaguardati a prescindere dalla vita del feto. Si spera che sulla sua morte di Valentina venga fatta piena luce perché i familiari hanno diritto ad una risposta chiara che sgombri il campo da ombre e dubbi. “Mia sorella aveva la pressione bassa, collassava, aveva 34 di temperatura e gli occhi gialli. Soffriva da ore e chiedeva di essere sedata perché tanto sarebbe morta ma almeno voleva smettere di soffrire”, mi ha raccontato ieri Angela, la sorella di Valentina per poi ripercorrere dolorosamente i lunghi e difficili mesi trascorsi dalla morte della sorella, il calvario di una famiglia devastata da un lutto inaccettabile. Una figlia, una moglie e una sorella morta in un luogo dove doveva ricevere assistenza e cure. “Ancora non ce ne rendiamo conto, mi ha detto, Valentina era giovane e voleva dei bambini. Durante le sue ultime ore nessuno ci aveva detto della gravità della situazione, ci siamo affidati ai medici e solo alla fine ci dissero che la situazione era gravissima. Ora abbiamo il dovere di batterci per lei, perché quello che le è capitato non accada ad altre donne”.
Durante la trasmissione Storie Vere, i genitori di Valentina hanno detto che i medici parlarono di una banale infezione da candida e poi di una colica renale: “Mia figlia mi disse mamma, sto morendo. Lei si è accorta che moriva e i medici no?”, chiede Giusy Milluzzo, mamma di Valentina, senza avere risposta. Ebbe un ruolo l’obiezione di coscienza o fu un caso di malasanità in cui una donna è stata lasciata senza adeguata assistenza e incredibilmente la sepsi non è stata diagnosticata?
La Procura della Repubblica di Catania nei giorni successivi alla morte di Valentina sostenne che “l’aspetto più proficuo sotto il profilo investigativo riguarda cosa è stato fatto o non è stato fatto nei diciassette giorni di ricovero” relegando così in secondo piano l’aspetto dell’obiezione di coscienza, eppure tra le cause di morte c’è anche il ritardo nell’estrazione dei feti e della placenta e c’è la testimonianza dei familiari di Valentina che pesa come una pietra: la dichiarazione di un medico che si diceva obiettore, in un reparto dove tutti i medici erano obiettori.
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pubblicato su Fq

giovedì 13 aprile 2017

Centri antiviolenza, un uomo viaggia alla ricerca di ‘altre stelle’

Una acrobata che volteggia nell’aria, avvolta in un drappo di stoffa, rappresenta egregiamente l’impegno delle attiviste dei Centri antiviolenza, ma anche le risorse che le donne vittime di violenze mettono in atto per uscire da inferni quotidiani. 

La foto (La risalita, 2014, di Michela Ferrara) è la copertina di Altre stelle – Un viaggio nei centri antiviolenza, scritto da Luca Martini per le edizioni Mimesis con la prefazione di Riccardo Iacona e la postfazione di Anna Prahamstraler, vicepresidente di D.i.Re.
BolzanoBresciaRiminiLuccaL’Aquila e Catania: queste le mete attraverso cui si snoda l’itinerario di Luca Martini che, bussando alla porta di sei Centri antiviolenza della rete D.i.Re, cerca di capire chi siano le attiviste e che cosa le animi. E’ la cronaca di un percorso educativo, di una presa di coscienza sul fenomeno della violenza maschile e sulla realtà vissuta dalle donne che ne combattono pregiudizi, rimozioni e stereotipi.
“Ho scelto di incontrare le attiviste dei Centri antiviolenza grazie a Riccardo Iacona perché mi convinsi dopo aver visto una puntata di Presa Diretta nel 2013″, dice l’autore che fin dalle prime pagine si domanda: “E qual è allora il ruolo degli uomini in questo scenario? Non essere violenti certo sembrerebbe già un primo passo. Ma il passo decisivo è la partecipazione al percorso per questa parità negata, nella condivisione dei valori e dei progetti, con l’ampia, necessaria consapevolezza del proprio ruolo. Che non è passivo, non è contemplativo, ma non è nemmeno di leadership come da millenaria esperienza usurpatrice. E’ di collaborazione fattiva, è di ascolto, è di supporto e poi, certamente, è da protagonista nelle proprie scelte di vita”.
Quella puntata dedicata alla Strage di donne ha spinto Martini a scoprire chi abita i luoghi femministi che da trent’anni in Italia accolgono le donne in fuga dalla violenza.  Ne è emerso il ritratto di luoghi vitali, creativi, animati da un’irriducibile passione politica e dal desiderio di libertà e giustizia delle donne, a dispetto delle difficoltà e della cronica ambivalenza dello Stato che è presente e assente, che vuole affrontare il problema e poi lo rimuove, che coinvolge i Centri antiviolenza per i loro servizi, ma poi rifiuta la loro lettura del femminicidio.
Le donne di Rompi il silenzio (Rimini) svelano che la “fortuna” di operare in una realtà ricca delle precedenti esperienze di altre associazioni emiliano romagnole, non le ha agevolate particolarmente. Hanno dovuto lavorare per ben tre anni prima di essere accolte dalle istituzioni locali per diventare, grazie alla tenacia e al valore della loro esperienza, interlocutrici autorevoli nel contrasto alla violenza contro le donne. Le donne dell’associazione Gea (Bolzano), ricevono sostegno dalle istituzioni grazie a una legge provinciale fin dal 1989, eppure si scontrano ancora con il pregiudizio di quei concittadini convinti che la violenza riguardi soprattutto immigrati e fanno i conti, talvolta, con i pregiudizi sulle femministe. Sabrina dice: “Finché dovremo mettere in evidenza il fatto che noi abbiamo nelle relazioni assolutamente serene con i nostri compagni, significa che siamo davvero indietro rispetto a dove dovremmo essere. Perché pare proprio che si debba spiegare che non siamo animate da sentimenti contro gli uomini, che non siamo esseri asociali. Questo renderci riconoscibili in tal senso, è un segno di diffusa inadeguatezza sociale. Così come si deve sempre specificare che non tutti gli uomini sono violenti. In realtà proprio la necessità di questa specificazione è quasi frustrante”.
Il libro racconta delle acrobazie della Casa delle donne (Brescia) e  Thamaia (Catania) che vanno avanti con scarsissimi finanziamenti e continuano ad accogliere le donne vittime di violenza. C’è la testimonianza del Centro antiviolenza dell’associazione Luna (Lucca) che ha incontrato le resistenze e le minimizzazioni di sempre: “Qui il problema non c’è!” Ma poi a Lucca, dieci femminicidi, tra il 2009 e il 2012,  risvegliano bruscamente le coscienze su una realtà che non conosce confini. E c’è l’intensa testimonianza del Centro antiviolenza Le Melusine (L’Aquila) attivo nonostante il terremoto che ha ferito città, paesi, anime e inciso un’invisibile e dolorosa linea di confine nella memoria collettiva, tra “il prima e il dopo”. La terra si è mossa travolgendo la popolazione e facendo esplodere la distruttività anche nelle relazioni. Racconta Annamaria che “col terremoto molte coppie sono scoppiate e la violenza maschile ha calcato la mano. In alcuni casi gli spazi angusti e stretti nei quali tante coppie si sono dovute trasferire hanno agito da detonatore rispetto alla violenza. In altri casi, queste donne, proprio alla luce di nuovi contatti ed esperienze di relazione hanno realizzato la loro condizione di sottomissione ed hanno cercato una via d’uscita”.
Il viaggio di Luca raccoglie, alla fine,  la testimonianza di Marilena Ricciardi, una violenza vissuta da studentessa, a Madrid: “Sono una delle donne su tre che nel corso della vita subiscono una aggressione sessuale”. Marilena parla delle conseguenze del trauma, della rabbia e del  vuoto seguito alla legittima  richiesta di giustizia perché ancora troppe denunce restano dimenticate tra sordità e silenzi sociali e istituzionali. La violenza è stata l’inizio di un doloroso pellegrinaggio alla ricerca di quella parte di sé che aveva lasciato nelle strade di Madrid. Dopo qualche anno le donne di un Centro antiviolenza londinese hanno saputo ascoltarla ed è cominciata la risalita.
I centri antiviolenza ci sono per questo, per rompere i silenzi senza cedere di un centimetro come le donne aquilane, dandosi una forza immensa come le catanesi, chiedendo e offrendo come le bresciane, facendo del loro attivismo una prospettiva di vita come le bolzanine e trovando spazi per ospitare le donne come hanno fatto le lucchesi. Non si fermano, nonostante tutto, perché come dicono le riminesi “quando  una non ce la fa più arrivano le altre a spingere”.
E’ questo mondo che Luca Martini ha voluto conoscere orientandosi come gli antichi marinai che scrutavano il cielo per seguire la rotta. E Luca scrive che ha scorto altre stelle ad illuminare il cammino.
@nadiesdaa

domenica 5 marzo 2017

#lottomarzo sciopero generale delle donne in Emilia Romagna

Il prossimo 8 marzo lo sciopero globale delle donne dilagherà per almeno 42 paesi, in tutto il mondo; qui trovate la mappa con gli eventi fissati fino ad ora, ma molti altri se ne stanno preparando negli ultimi giorni. Come partecipare? Non solo nel proprio privato, o andando solo alle iniziative della sera, ma anche scioperando dal lavoro: tutte le lavoratrici del settore privato e del pubblico possono scioperare perché esiste la copertura sindacale generale. Qui, a questo LINK, trovate i dettagli. 
Consultate anche, a questo link, la mappa interattiva dei sindacati, che vi guida alle iniziative sindacali in Emilia Romagna. partecipate tutte! invitate tutte a partecipare! 


martedì 7 febbraio 2017

Sciopero globale delle donne l’8 marzo: anche l'Italia si mobilita

“Eravamo marea, ora siamo un oceano e nessuno scoglio ci potrà fermare”: l’assemblea plenaria di Nonunadimeno  si è conclusa con queste parole alle 16,45 di una domenica pomeriggio piovosa che non ha raffreddato le grida gioiose e gli applausi nelle aule di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. L’ingresso di via Belmeloro 14, la mattina di sabato 4 febbraio era affollato da centinaia di donne e uomini che per due giorni (il 4 e 5 febbraio) si sono confrontate e hanno discusso su otto tavoli tematici: lavoro e welfare, femminismo migrante, diritto alla salute sessuale e riproduttiva, educare alle differenze, percorsi di fuoriuscita dalla violenza, sessismo nei movimenti, narrazioni della violenza attraverso i media, piano legislativo e giuridico. Milleseicento attiviste hanno portato proposte, idee e progetti. Donne di ogni età, settantenni della prima ora del movimento e diciassettenni, insieme a donne delle altre generazioni si sono ritrovate ancora, grazie a quest’ultima straordinaria ondata femminista che non cessa di fluire. Alla faccia de “il femminismo è morto” o “il femminismo ha perso”, tormentoni ricorrenti negli ultimi vent’anni che ne cantavano il de profundis come se il movimento delle donne fosse impegnato in un match a punti. Le donne in movimento erano lì a ostinarsi nel tessere cambiamenti, giorno dopo giorno, in anni buoni e anni brutti.


Le due giornate bolognesi sono la prosecuzione di un percorso cominciato il 26 novembre scorso con la manifestazione che ha visto la partecipazione di oltre duecentomila donne e uomini a Roma e con la prima assemblea del 27 novembre svoltasi all’Università La Sapienza. Il Piano femminista contro la violenza che Nonunadimeno vuole costruire è contrapposto a quello varato dal governo nel 2015 (in scadenza il prossimo giugno) che non riconosce i saperi femministi e non valorizza  il ruolo politico dei Centri antiviolenza, parificati a qualunque altro servizio del privato sociale. Il Piano lascia saldo nelle mani del governo e delle sue amministrazioni, un ruolo centrale nelle politiche che troppo spesso impongono strategie di contrasto alla violenza di stampo ancora securitario, dirette a controllare le donne invece che a rafforzarle. I percorsi di uscita dalla violenza sono ancora difficili e complicati, la Convenzione di Istanbul resta lettera morta in molti dei suoi articoli e le istituzioni adottano ancora uno sguardo neutro sulla violenza che ri-vittimizza  le donne in una società ancora conservatrice e arretrata rispetto a quelle del nord Europa. I media non agevolano il cambiamento perché rappresentano in maniera distorta la violenza e i ruoli di genere e diventano megafono di stereotipi e sessismo.
Durante i tavoli si è parlato anche di povertà e di precariato, di diritti Lgbt e di discriminazioni verso le donne migranti, perché la violenza non è solo quella che avviene nelle relazioni di intimità: c’è la violenza di interventi politici che rispondono alla crisi erodendo diritti, tutele, welfare, dando per scontato che siano le donne con il loro lavoro di cura a sostituire politiche sociali assenti. E’ ancora violenza quella di Stati che costruiscono muri contro l’immigrazione o promulgano leggi per respingere e deportare. E’ ancora violenza quella di uno Stato che ha smantellato i consultori e continua a lasciare la legge 194 ostaggio dell’obiezione, cosiddetta “di coscienza”, che spesso cela l’ipocrisia di ginecologi che attuano una volontà di controllo dei corpi delle donne o sono mossi da opportunismi di carriera. Sono stati ancora molti altri i temi affrontati ma non è possibile elencarli tutti.
Bologna è stato fatto il punto per la mobilitazione per lo Sciopero globale produttivo e riproduttivo delle donne in occasione dell’8 marzo, si tratta di una iniziativa che ha precedenti illustri e questa volta è stato lanciato dalle donne argentine (Niunamenos) che hanno ricevuto l’adesione di più di venti Paesi. Sabato hanno aderito anche le statunitensi che, dopo il successo della Women’s March contro il neopresidente Usa Donald Trump, continuano la loro lotta.
La prossima Giornata Internazionale della donna tornerà a essere un momento di mobilitazione femminista dopo anni di insignificanza che l’aveva trasformata in una ricorrenza di bisbocce tra amiche, streaptease maschili, mercatini di mimose col prezzo alle stelle, con uno sfruttamento commerciale dell’evento anche da parte di ristoranti e locali notturni. A breve, Nonunadimeno indicherà 8 punti per l’8 marzo che saranno il riferimento per l’organizzazione di mobilitazioni territoriali per aderire allo Sciopero globale delle donne. Ci sarà un’astensione reale o simbolica dal lavoro produttivo e riproduttivo e il coinvolgimento di donne dentro e fuori i luoghi di lavoro. Sarà una protesta attuata con modi anche inediti (ci saranno sorprese), durerà 24 ore, i suoi colori saranno il nero e il fucsia e il simbolo la matrioska di Nonunadimeno.
Fino ad oggi alcuni sindacati di base hanno aderito, ma hanno lanciato anche l’astensione dal lavoro per il 17 marzo nel comparto della scuola. Una scelta criticata da Nonunadimeno che ha invitato i sindacati di base, a ripensare la loro scelta facendo convergere le due date mentre la Cgil, che pure aveva sostenuto la manifestazione del 26 novembre, non ha ancora lanciato alcuno sciopero e si dubita lo farà anche per difficoltà, così dice il sindacato, di carattere organizzativo e tempi stretti.
Diamoci da fare perché tira una brutta aria. Donald Trump e altri leader con vocazione ultraconservatrice (tra cui non mancano donne come Marine Le Pen) cavalcano politiche reazionarie e  fondamentalismi di stampo misogino mentre innalzano muri e costruiscono nuove segregazioni. Contro questo backlash un femminismo internazionale attraversa i confini degli Stati e mira ad abbattere quei muri. Non illudiamoci, è una battaglia lunga e difficile. Si continua a tessere il cambiamento anche con lo sciopero globale dell’8 marzo. Le idee sono chiare cosa ci riserva il futuro un po’ meno.
In bocca al lupo a tutte